Non si tratta di rimpiangere un passato analogico, né di demonizzare lo smartphone come se fosse il colpevole assoluto di ogni malessere giovanile. La tecnologia non è il problema. Il problema è l’abuso. E, oggi, quell’abuso è una realtà diffusa e documentata.
di Massimiliano Di Liborio
Non si tratta di giudicare. Non si tratta di rimpiangere un passato analogico, né di demonizzare lo smartphone come se fosse il colpevole assoluto di ogni malessere giovanile. La tecnologia non è il problema. Il problema è l’abuso. E, oggi, quell’abuso è una realtà diffusa e documentata.
In Italia ci sono più schede SIM che cittadini, 82 milioni di Sim attive a gennaio 2025. I dati del Global Digital Report (2023) mostrano che il tempo medio trascorso online da un adolescente supera le 5 ore al giorno, con picchi di 9 ore per alcuni utenti. Il 17% mostra segnali clinici di dipendenza da social media. Alcuni studi (Archives of Disease in Childhood, 2021) riportano come gli smartphone vengano controllati anche oltre 300 volte al giorno, soprattutto tra le ragazze tra i 13 e i 17 anni. È diventata una caccia continua, una ricerca ininterrotta di novità, stimoli, distrazioni.
Ma cosa stiamo cercando?
Per provare a rispondere, dobbiamo tornare indietro. Non di anni, ma di millenni. Dobbiamo accettare il fatto che noi abitiamo un corpo antico in un mondo nuovo. Un cervello che si è formato nel silenzio delle savane, nella lentezza della caccia, nella concretezza e nel calore del legame con il gruppo, oggi si ritrova immerso in flussi digitali infiniti, in relazioni frammentate, in uno stato costante di attivazione: ci siamo dentro con un cervello che sostanzialmente è rimasto invariato negli ultimi 250.000 anni.
Il neuroscienziato Jaak Panksepp, padre delle neuroscienze affettive, ha individuato nel nostro cervello profondo dei sistemi motivazionali innati, che si attivano in risposta a bisogni fondamentali. Uno di questi, forse il più importante, si chiama SEEKING: è il sistema della ricerca. Non ricerca del risultato, ma ricerca in sé. È il sistema che ci spinge ad agire, a esplorare, a muoverci verso ciò che potrebbe portarci nutrimento, relazione, significato. Il correlato neurofisiologico di ciò che ci spinge ad alzarci dal letto tutte le mattine, nella speranza di trovare qualcosa di bello, lì fuori. È profondamente dopaminergico: non ci dà piacere, ci dà energia.Per natura una tensione attiva, non passiva. Il desiderio di scoprire.
Eppure, oggi, troppo spesso, questo sistema è iperstimolato e svuotato.
Lo smartphone – che potrebbe essere uno strumento – si è trasformato, per molti, in una protesi motivazionale. Il pollice scorre lo schermo non per cercare qualcosa di preciso, ma per mantenere attiva quella tensione. Scrolliamo nella speranza che qualcosa ci attragga, sempre di più. Ma nella maggior parte dei casi troviamo solo ripetizione, e il sistema SEEKING si consuma a vuoto.
È dopamina senza destinazione. È attivazione senza soddisfazione.
Questo fenomeno è stato descritto con precisione nella teoria della "incentive sensitization" (Robinson & Berridge, 2001): quando l’attivazione dopaminergica viene sollecitata in modo cronico senza un reale soddisfacimento, il desiderio cresce, ma il piacere diminuisce. Si entra in un circolo vizioso che può portare a dipendenza, frustrazione e disorientamento motivazionale.
Ma perché tutto questo ci tocca così profondamente?
Perché il sistema SEEKING – come ci insegna anche Antonio Damasio in L’errore di Cartesio – non è separato dal corpo. La nostra motivazione non nasce solo da ragionamenti razionali, ma da segnali viscerali, da marcatori somatici che ci guidano nelle decisioni quotidiane. Il cervello, dice Damasio, non è una macchina razionale isolata. È un sistema incarnato, continuamente influenzato dalle emozioni, dai vissuti, dalle esperienze.
Quando un adolescente vive costantemente in ambienti digitali iperattivanti ma poveri di sicurezza emotiva, relazione autentica e di corpo, questi marcatori somatici si confondono. Evapora il confine tra stimolo e risposta, tra bisogno e gratificazione immediata.
E qui si inserisce un’altra dimensione cruciale: quella della sicurezza.
Secondo Panksepp, il sistema PLAY – quello che ci fa giocare, esplorare in modo sociale e reciproco – si attiva solo se ci sentiamo al sicuro. Senza sicurezza non c’è gioco, non c’è curiosità, non c’è apertura al mondo. C’è solo chiusura, difesa, oppure fuga. In alcuni casi, c’è impotenza appresa, come dimostrato dagli esperimenti di Martin Seligman negli anni ’60. Se un organismo viene esposto ripetutamente a situazioni in cui non può controllare ciò che accade, smette di cercare soluzioni. Si arrende. Anche quando, in teoria e in pratica, potrebbe agire.
Questa passività non nasce dalla mancanza di volontà, ma dalla mancanza di senso. È un movimento interrotto, acefalo, senza oggetto. Un film che non procede, accozzaglia di scene senza una trama.
Ma l’essere umano non è fatto solo per cercare. È fatto anche per legarsi.
Lo ha dimostrato lo studio di Harvard sullo sviluppo adulto, iniziato nel 1938 e ancora in corso. È la ricerca longitudinale più lunga mai condotta sulla felicità. La conclusione, dopo 85 anni, è semplice e radicale: le relazioni stabili e significative sono il principale predittore di benessere fisico e mentale nella vecchiaia. Non il successo, non il denaro, non la fama.
I legami.
Come scrive Robert Waldinger, attuale direttore dello studio: “La solitudine uccide. È potente quanto il fumo e l’alcolismo.”
E oggi, la solitudine adolescenziale è in crescita esponenziale. I dati del Journal of Adolescence mostrano che tra il 2012 e il 2018 la percezione di isolamento a scuola è raddoppiata in quasi tutti i Paesi analizzati. In Italia, quattro ragazzi su dieci si dichiarano soli. Uno su due ha vissuto sintomi ansiosi o depressivi. E tutto questo accade mentre siamo più connessi che mai.
Cosa significa?
Che la connessione digitale non è di per sé relazione, o almeno è una relazione che non basta.
La presenza fisica, l’affetto reale, la reciprocità vissuta nel corpo e nello sguardo sono ciò che attivano davvero i nostri sistemi affettivi profondi. Sono queste esperienze a nutrire SEEKING, PLAY, CARE. A regolare la paura, la rabbia, la separazione.
Oggi più che mai abbiamo bisogno di costruire ambienti compatibili con la nostra natura, contesti che offrano ritmi sostenibili, relazioni autentiche, possibilità di esplorazione non giudicata e non controllata. Nella scuola, nello sport, nelle famiglie.
La tecnologia può essere un rifugio. Ma può diventare una prigione.
E allora il nostro compito educativo non è proibire, ma rileggere. Non punire l’uso, ma accompagnare a riconoscere l’abuso. Aiutare bambini e adolescenti a sentire il proprio corpo, a costruire significati e costruire relazioni lente. A usare il telefono, senza essere usati da esso.
Come ha scritto Louis Cozolino: “Il nostro cervello si sviluppa e si mantiene in salute solo attraverso l’interazione continua con altri cervelli.”
Esplorare, cercare, legarsi. Questa è la triade che dobbiamo proteggere.
Bibliografia
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